OIGO n°1: PONTE ROSSO

Il testo scritto su Ponte Rosso (Mantova, Italia) sulla prima edizione di OIGO (International Observatory on the Major Works) intitolato “The Third Island”, curato da Antonio Ottomanelli e promosso da Planar.
“La prima Grande Opera è la città stessa.
Potrei parlare di tantissimi esempi, ma c’è un caso che ho particolarmente preso a cuore da quando diventata Assessore alla Rigenerazione Urbana di Mantova: Ponte Rosso. Ponte Rosso è un quartiere alla periferia della città, circondato dalla strada provinciale a est, dalla ferrovia a ovest, dalla canale di deviazione del rio a nord e da una rotatoria a sud. Una periferia agghiacciante, come tante periferie urbane: speculazioni edilizie caldeggiate dalle amministrazioni tra gli anni Ottanta e Duemila e fallite a partire dalla crisi economica del 2009.
Per metà l’area di Ponte Rosso è residenziale, uno dei peggiori esercizi di architettura che abbia mai visto, e per il resto è occupata da due padiglioni destinati a commerciale. Due scheletri mai terminati perché la società è fallita prima ancora di aver compreso il pessimo investimento. Come ogni nuova edificazione, i proprietari sono stati obbligati a stipulare in anticipo una fideiussione bancaria che garantisse l’adempimento degli oneri di urbanizzazione, ossia il contributo di opere pubbliche che il privato è obbligato a restituire alla comunità in cambio del guadagno che gli perviene dal costruire. Il paradosso è che le previsioni del PGT, il piano di governo del territorio mantovano, tra i più avanzati in Italia perché conforme alle normative europee, impongono di spendere il milione di euro di fideiussione per costruire dei parcheggi destinati a un commerciale che non arriverà mai. Ma se non lo fai dovrai risarcire il privato, colpevole di tenere una area della città depressa, del danno. Ma chi risarcisce i cittadini di aver vissuto per venti anni una vita di merda? Procedure.
Sono entrata in contatto con molte parti di città informali nel mondo: le favelas di San Paolo, le comunas di Bogotà, gli slum di Nairobi e Mumbai, i microryon di Mosca. Queste, sebbene le drammatiche condizioni di vita, di igiene, di degrado sociale e fisico, di insicurezza e illegalità a cui costringono la stragrande maggioranza dei loro abitanti, sono luoghi che conservano una peculiare dignità. Una estetica affascinante. Un carattere urbano. Ponte Rosso non riesce neanche ad essere così brutto da assomigliare a una delle periferie del mondo che, da architetti, tanto amiamo. È solo agghiacciante.
Esiste il modo per forzare gli strumenti urbanistici di cui le città si sono dotate dal dopoguerra ad oggi: è una scelta politica. Eppure non discutiamo mai di tutto questo. Quando parliamo di Grandi Opere parliamo solo delle sue rifiniture, degli scandali, di ciò che fa notizia. Non siamo capaci di comprendere il legame con il contesto storico in cui vengono concepite. Non siamo capaci di comprendere l’influenza che hanno nella vita quotidiana di milioni di persone. Non siamo capaci di ripensare le Grandi Opere come una infrastruttura che, se utilizzata appropriatamente, è uno strumento di cui ci dobbiamo dotare per governare il territorio. Come una questione che non è più solo mantovana o calabrese. Neanche italiana o europea. Ma mondiale.”
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